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Ancora su arbitrato e fallimento

La Corte di Cassazione, in due recenti pronunzie, è tornata sul tema del rapporto tra arbitrato e fallimento.

La prima sentenza (Cass., Sez. I Civ., 24 giugno 2015, n. 13089, disponibile qui) riafferma l’antico e consolidato principio secondo il quale “in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria, giacché l’effetto attributivo della cognizione agli arbitri (…) è in ogni caso (…) paralizzato dal prevalente effetto (…) dell’avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l’accertamento di un credito verso l’impresa sottoposta alla procedura concorsuale, allo speciale, ed inderogabile, procedimento di verificazione dello stato passivo“.

Maggiormente interessante è la seconda sentenza (Cass., Sezioni Unite Civili, 21 luglio 2015, n. 15200, disponibile qui), che ha affrontato il tema del rapporto tra arbitrato e fallimento nel caso in cui il procedimento arbitrale penda all’estero e quindi vengano in rilievo le disposizioni di cui al Regolamento (CE) n. 1346 del Consiglio del 29 maggio 2000 relativo alle procedure di insolvenza.

Ai sensi del Regolamento (CE) n. 1346/2000, la legge dello Stato membro in cui è stata aperta una procedura d’insolvenza determina, tra le altre cose, anche gli effetti della procedura stessa sulle azioni giudiziarie individuali, salvo che per i procedimenti pendenti (art. 4, lett. f)).  Gli effetti della procedura su questi ultimi sono invece disciplinati esclusivamente dalla legge dello Stato membro nel quale essi pendono (art. 15).

Alcuni giudici comunitari hanno ritenuto che le disposizioni appena citate concernano esclusivamente i procedimenti esecutivi individuali (che quindi potrebbero continuare, ove consentito dall’ordinamento ove sono pendenti, nonostante lo spossessamento derivante dal fallimento: così la High Court of Ireland, nella sua decisione 2005 IEHC 274, disponibile qui sul portale del British and Irish Legal Information Institute).

Altri giudici, invece, hanno manifestato il convincimento secondo il quale gli artt. 4 lett. f) e 15 del Regolamento (CE) n. 1346/2000 troverebbero applicazione anche con riferimento a giudizi di merito, ivi compresi procedimenti arbitrali (così la High Court of Justice britannica, nella sua decisione 2008 EWHC 2155 (Comm), disponibile qui e confermata dalla Supreme Court of Judicature, 2009 EWCA Civ 677, disponibile qui, sempre sul portale del British and Irish Legal Information Institute).

Il dubbio interpretativo dovrebbe essere infine sciolto dal Regolamento (UE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 848 del 20 maggio 2015, il cui art. 18, che troverà applicazione a partire dal 26 giugno 2017, prevede che “Gli effetti della procedura d’insolvenza su un procedimento giudiziario o arbitrale pendente relativo a un bene o a un diritto facente parte della massa fallimentare di un debitore sono disciplinati esclusivamente dalla legge dello Stato membro in cui il procedimento è pendente o ha sede il collegio arbitrale“.

La Corte di Cassazione, con la sentenza delle Sezioni Unite in commento, è invece giunta a un ben diverso approdo.

Nell’agosto 2000, una società italiana (Valtur) e una società egiziana (Nesco) hanno stipulato un accordo con il quale la seconda ha concesso in locazione alla prima due strutture alberghiere.

Nel dicembre 2010, è sorta contestazione tra le parti in relazione a un preteso inadempimento di Valtur, che avrebbe avuto come conseguenza la risoluzione del contratto.  Sempre nel dicembre 2010, la locatrice Nesco ha promosso nei confronti di Valtur l’arbitrato ICC previsto dal contratto di locazione.

Nelle more del procedimento arbitrale, alla fine del 2011, Valtur è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria e dichiarata insolvente dal Tribunale di Milano.

Nesco si è quindi insinuata al passivo con domanda depositata nel febbraio 2012, rilevando la pendenza dell’arbitrato ICC (ossia di un arbitrato di diritto francese) e, richiamando l’art. 15 del Regolamento (CE) n. 1346/2000 e la normativa processuale francese a suo dire applicabile, ha chiesto l’ammissione al passivo con riserva del credito oggetto del procedimento arbitrale, condizionando l’ammissione all’esito di tale procedimento.

Nel giugno 2012, il Tribunale di Milano ha ammesso al passivo Nesco, come da sua domanda, in via condizionata ex art. 55, co. 3, l.fall.

Il provvedimento del Tribunale di Milano è stato opposto da Nesco nell’ottobre 2012, per motivi riguardanti il grado di preferenza riconosciuto al suo credito nell’ambito dello stato passivo.  La procedura concorsuale di Valtur, costituitasi nel procedimento di opposizione nell’aprile 2013, ha domandato in via riconvenzionale l’accertamento della giurisdizione esclusiva del giudice italiano anche in ordine alla determinazione del credito oggetto di insinuazione.

Nesco, con ricorso del febbraio 2014, ha quindi chiesto alla Corte di Cassazione di dichiarare la giurisdizione esclusiva del collegio arbitrale ICC in relazione alla determinazione dell’entità e dell’esistenza del suo credito oggetto di ammissione al passivo con riserva nel procedimento di amministrazione straordinaria di Valtur pendente avanti il Tribunale di Milano.

Ad avviso di Nesco, innanzi tutto, la legge che governa la questione di giurisdizione in parola (riparto tra giudice statale, nella specie giudice fallimentare, e tribunale arbitrale estero) non sarebbe la legge fallimentare italiana, bensì il Regolamento (CE) n. 1346/2000.   In particolare, ai sensi degli artt. 4 lett. f) e 15 del citato Regolamento, più sopra richiamati, il sopravvenire di una procedura concorsuale in uno Stato membro dell’Unione (nel caso di specie, in Italia) non inciderebbe in alcun modo sulla giurisdizione del diverso Stato membro (nel caso di specie, la Francia) in cui già pendeva una lite, spettando esclusivamente alla legge di tale ultimo Stato membro disciplinare gli effetti che il sopravvenire della procedura concorsuale produce sul giudizio pendente.  E secondo la legge francese, ove il collegio arbitrale sia già costituito al momento della dichiarazione di insolvenza, il giudizio arbitrale può proseguire a condizione che il creditore depositi istanza di ammissione al passivo condizionata all’esito del procedimento arbitrale stesso: condizioni, tutte, soddisfatte nella vicenda in parola.

La Suprema Corte ha però ritenuto che il ricorso di Nesco fosse inammissibile, per più ragioni. Innanzi tutto, il regolamento preventivo di giurisdizione è stato ritenuto inammissibile perché promosso in un momento successivo alla decisione del giudice di merito, identificata dalla Cassazione nel decreto di formazione ed esecutività dello stato passivo di Valtur, emesso dal Tribunale di Milano nel giugno 2012 (mentre il ricorso di Nesco è del febbraio 2014). Inoltre, secondo la Suprema Corte la questione a essa sottoposta da Nesco non sarebbe una questione di giurisdizione in senso tecnico, bensì una questione concernente gli effetti della dichiarazione di insolvenza sulla procedura arbitrale pendente al momento della dichiarazione di insolvenza o comunque sull’efficacia della clausola compromissoria posta a fondamento della potestas iudicandi del Tribunale arbitrale.

Nonostante la declaratoria di inammissibilità del ricorso di Nesco, la Cassazione offre nelle ultime pagine della motivazione della sentenza la sua interpretazione dell’art. 15 del Regolamento (CE) n. 1346/2000, che la porta a riaffermare la competenza esclusiva e inderogabile del foro fallimentare.

Il Regolamento in parola secondo la Cassazione non sarebbe in realtà neppure applicabile, posto che esso è volto a disciplinare “esclusivamente i rapporti derivanti da una procedura concorsuale che si instaura tra parti che hanno la propria residenza o sede all’interno dell’Unione Europea“(Nesco invece è come visto una società egiziana).

Pure ove il Regolamento (CE) n. 1346/2000 fosse applicabile, esso comunque disciplinerebbe, per quel che interessa, “soltanto gli effetti della dichiarazione di fallimento sul procedimento pendente in sede extrafallimentare, ma non anche gli effetti di tale procedimento sulla competenza giurisdizionale relativa alla procedura fallimentare: gli artt. 4 e 15 del Regolamento non hanno direttamente ad oggetto detta competenza, pur disciplinando l’individuazione della legge che disciplina gli effetti della procedura concorsuale sui procedimenti collegati e previamente instaurati“.

La conclusione cui perviene la Suprema Corte è quindi che la fattispecie sottoposta al suo esame (procedimento arbitrale pendente in Francia da data anteriore rispetto all’apertura della procedura di insolvenza in Italia) “diversamente da quanto opinato, con dovizia di pur pregevoli argomentazioni da parte ricorrente (…) non è regolata dalla disciplina speciale di cui agli artt. 4, lettera f, e 15 del Regolamento CE n. 1346/2000“.

Pare quindi di intendere che, ad avviso della Suprema Corte, l’art. 15 del vigente Regolamento riguarderebbe solo gli effetti dell’apertura della procedura di insolvenza sul procedimento pendente in altro Stato membro: in altri termini, la possibilità che, in tale Stato membro, esso continui e le eventuali condizioni perché possa continuare. Se poi il provvedimento reso all’esito di questo procedimento potrà essere opposto alla massa fallimentare, sembrerebbe essere questione rimessa al giudice fallimentare che deciderà secondo la lex concursus. In effetti, la Cassazione rammenta “che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria, giacché l’effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è in ogni caso paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento o dall’apertura della procedura in amministrazione straordinaria, dell’avocazione dei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di un credito sottoposto alla procedura concorsuale allo speciale e inderogabile procedimento di verificazione dello stato passivo“.

Rimane, a questo punto, il dubbio su quale possa essere la ratio (e la concreta utilità) della disciplina regolamentare.

Roberto Oliva:
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