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Una recente pronunzia del Tribunale di Roma (sentenza n. 25936 del 30 dicembre 2015, disponibile qui) consente di svolgere una riflessione sul tema dell’arbitrabilità delle controversie societarie e in particolare di quelle aventi ad oggetto l’impugnazione di deliberazioni assembleari.
Questa, in sintesi, la vicenda decisa dal Tribunale di Roma.
Taluni soci di una società a responsabilità limitata hanno impugnato la deliberazione, assunta dall’assemblea di quest’ultima, con la quale erano state revocate/annullate/rese prive di efficacia precedenti deliberazioni di distribuzione degli utili ai soci.
La società convenuta si è costituita in giudizio sollevando, tra l’altro, exceptio compromissi. Invero, l’art. 29 del suo statuto prevede che “tutte le controversie sorte tra i soci e la società, gli amministratori, i liquidatori, i sindaci o il revisore, aventi per oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, sono risolte da un arbitro unico nominato dal Presidente del Consiglio Notarile del Distretto nel cui ambito ha sede la società. (…) L’arbitro procede in via rituale e decide secondo equità entro novanta giorni dalla nomina, senza obbligo di deposito del lodo, pronunciandosi anche sulle spese dell’arbitrato. La presente clausola compromissoria non si applica alle controversie nelle quali la legge prevede l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero“.
Il Tribunale di Roma ha quindi esaminato la natura della controversia avanti a esso proposta, per verificare se avesse ad oggetto diritti disponibili (che avrebbero potuto e quindi, nel caso di specie, dovuto essere conosciuti dal Tribunale arbitrale) o se invece riguardasse diritti indisponibili (riservati alla cognizione del giudice statale). Ed è giunto alla conclusione che oggetto della controversia fossero diritti disponibili.
Invero, ad avviso del Tribunale di Roma, “l’area dei diritti indisponibili, per i quali non può valere la rimessione ad arbitri, è limitata a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte“. Fatta questa premessa, il giudice romano ha poi osservato che i vizi della deliberazione denunziati dagli attori non comportano tale “reazione (…) svincolata da qualsiasi iniziativa di parte“. Al contrario, si risolvono in mere ragioni di annullabilità della deliberazione impugnata.
Il Tribunale di Roma ha quindi pronunziato la propria incompetenza, in favore del Tribunale arbitrale previsto dallo statuto.
Mi pare che il giudice romano sia giunto a una conclusione corretta (devoluzione alla cognizione arbitrale della specifica controversia promossa avanti il giudice statale) sia pure seguendo un percorso argomentativo non del tutto condivisibile.
Sappiamo che ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 possono essere devolute alla cognizione degli arbitri “le controversie (…) che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale“. Non dissimile è la previsione dell’art. 806 cod. proc. civ., come modificata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40: “Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge“.
Per comprendere quindi se una controversia sia arbitrabile, occorre innanzi tutto verificare se essa ha ad oggetto diritti disponibili o indisponibili.
Ebbene, in questo quadro, ciò che non mi convince è la corrispondenza – affermata dal Tribunale di Roma – tra carattere indisponibile del diritto controverso e natura inderogabile della norma che definisce tale diritto: “va ribadito che l’area dei diritti indisponibili, per i quali non può valere la rimessione ad arbitri, è limitata a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte“.
Tra questi “interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte“, viene poi citato dal Tribunale di Roma (che sul punto richiama l’orientamento della Cassazione, di cui già avevo parlato in questo post) quello relativo a chiarezza e precisione del bilancio di esercizio.
Mi sembra però che tra la definizione di diritto indisponibile (interesse la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata dall’iniziativa di parte) e l’esemplificazione dello stesso (chiarezza e precisione del bilancio) sussista un salto logico difficilmente colmabile. Infatti, la tutela dell’interesse alla corretta rappresentazione nel bilancio della situazione economica e patrimoniale della società non è affatto “svincolata da qualsiasi iniziativa di parte“. Ben al contrario, una iniziativa è richiesta. E deve pure essere abbastanza sollecita: un bilancio non è più impugnabile dopo l’approvazione del successivo (art. 2434/bis cod. civ.).
A ben vedere, come è stato acutamente osservato in dottrina, tutti i diritti previsti da norme civili sono disponibili, nel senso che – salvi i casi, invero non frequenti, di legittimazione del pubblico ministero – di essi si può disporre non esercitandoli, poiché il difetto di iniziativa del privato equivale – sia pure in senso lato – a disposizione del diritto.
Non a caso, altra dottrina ha proposto di circoscrivere l’area dell’indisponibilità dei diritti ai limitati settori e alle poche materie dove le parti non hanno la libera disponibilità dell’azione, poiché devono sottostare all’iniziativa del pubblico ministero, sia essa in via di azione o di intervento obbligatorio.
Si tratta di una interpretazione interessante, ma che mi pare contraddetta dal tessuto normativo che ci interessa. Invero, l’art. 34 d.lgs. 5/2003, dopo aver disposto che “Gli atti costitutivi delle società (…) possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto” (co. 1), si cura di specificare che “Non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero” (co. 5).
In altri termini: è la legge stessa a ricordarci che le controversie su diritti indisponibili e quelle nelle quali è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero rappresentano due insiemi distinti. Ad esempio, non ritengo che una controversia relativa alla revoca di un liquidatore di società concerna diritti indisponibili. Nondimeno, non sarà arbitrabile, poiché in essa è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero ex art. 70 cod. proc. civ. (si tratta infatti di controversia che potrebbe essere promossa dallo stesso pubblico ministero: art. 2487, co. 4, cod. civ.).
Dall’altro lato, però, neppure può fondatamente affermarsi, come invece spesso è affermato dalla giurisprudenza che ribadisce tralatiziamente antiche massime, che il carattere inderogabile di una norma comporterebbe automaticamente l’indisponibilità del diritto che in quella norma rinviene la sua fonte, con la conseguente non arbitrabilità delle relative controversie.
Invero, sono pacificamente arbitrabili controversie in cui si deve fare applicazione di norme inderogabili (ad esempio, in tema di nullità di negozi giuridici, ivi compresa la nullità per contrarietà all’ordine pubblico: si pensi alle controversie in materia di diritto della concorrenza).
Che nozione di diritti indisponibili può allora essere impiegata?
A me pare che tali siano quelli – e solo quelli – ai quali non si può validamente rinunziare mediante attività negoziale.
Adottando questa definizione, diviene allora possibile individuare con maggior chiarezza le controversie societarie non arbitrabili.
Invero, i “diritti disponibili relativi al rapporto sociale” di cui all’art. 34 d.lgs. 5/2003 sarebbero quelli passibili di valida disposizione ai sensi del diritto societario. Parallelamente, i diritti indisponibili in materia andrebbero a coincidere con i diritti irrinunciabili dei soci: quei diritti che non possono essere validamente derogati non solo dall’assemblea, ma neppure dall’atto costitutivo, ossia neppure con il consenso di tutti i soci ivi compreso il loro titolare (come chiaramente illustrato da autorevole dottrina).
In questa prospettiva, si ridurrebbe sensibilmente la rilevanza della molteplicità di indici impiegati dalla giurisprudenza per affermare (o negare) l’arbitrabilità di una controversia societaria, quali ad esempio la pretesa natura (individuale o superindividuale) dell’interesse tutelato o, in ipotesi di impugnazione di deliberazioni, il carattere del vizio denunciato o lo sue conseguenze (nullità o annullabilità): frusta fit per plura, quod potest fieri per pauciora.