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La Corte di Cassazione, con la sentenza della Sez. I Civ. del 23 febbraio 2016, n. 3481 (disponibile qui), ha definitivamente deciso una vicenda di cui si è ampiamente occupata la stampa: quella della controversia tra Bernardo Caprotti e i suoi figli Violetta e Giuseppe relativa alla proprietà delle azioni della holding Supermarkets Italiani S.p.A.
Nel 1996, in vista del compimento di una serie di operazioni societarie, le azioni di questa holding (che ai tempi si chiamava Bellefin S.p.A.) sono state intestate fiduciariamente da Bernardo Caprotti ai suoi figli Violetta, Giuseppe e Marina, i quali a loro volta le hanno fatte oggetto di un mandato fiduciario con Unione Fiduciaria S.p.A. Nel contempo, i figli hanno conferito al padre procura generale a compiere tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione senza obbligo di rendiconto.
Nel febbraio 2011, avvalendosi proprio di queste procure, Bernardo Caprotti ha estinto i mandati fiduciari in essere tra i figli e Unione Fiduciaria S.p.A. e ha attivato un nuovo mandato fiduciario, avente ad oggetto le stesse azioni, “a beneficio del loro unico ed esclusivo pieno proprietario e fiduciante ultimo Signor Bernardo Caprotti“.
I figli si sono avveduti di quanto avvenuto solo dopo circa un anno e Violetta e Giuseppe Caprotti hanno chiesto al Tribunale di Milano di disporre il sequestro giudiziario delle azioni (ai sensi dell’art. 670 cod. proc. civ., “Il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario: 1) di beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea (…)“).
Il Tribunale ha respinto le richieste dei figli e, nel frattempo, il padre ha promosso il giudizio arbitrale previsto dall’accordo concluso con i figli nel 1996, in virtù del quale erano state effettuate le intestazioni fiduciarie più sopra riferite.
Il Tribunale Arbitrale nel luglio del 2012 ha accolto le domande di Bernardo Caprotti, respingendo invece quelle dei figli.
Questi ultimi hanno impugnato il lodo avanti la Corte di Appello di Milano e, risultati soccombenti pure in quel giudizio, hanno infine presentato ricorso avanti la Suprema Corte.
Non si è posta, in questo giudizio, la questione dell’ammissibilità dell’impugnazione per violazione di regole di diritto di un lodo pronunciato dopo la riforma del 2006 sulla base di una clausola compromissoria conclusa prima riforma (di cui avevo parlato qui, qui e qui). Anche secondo il previgente art. 829 cod. proc. civ., infatti, non sarebbe stato possibile impugnare per tale motivo il lodo pronunciato nel 2012, poiché esso è stato reso in un arbitrato di equità (e il vecchio art. 829, co. 2, cod. proc. civ. disponeva che “L’impugnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile“).
Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti hanno denunciato la nullità del lodo ex art. 829, co. 3, ultimo periodo, cod. proc. civ. (“è ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico“), poiché esso sarebbe stato emesso in violazione del principio, per l’appunto di ordine pubblico, dell’inammissibilità del trasferimento della proprietà in mancanza di un atto a ciò idoneo. La tesi dei ricorrenti è però stata respinta dalla Suprema Corte: “anche ad aderire alla prospettazione dei ricorrenti, e quindi a ritenere di ordine pubblico le norme sul trasferimento della proprietà, va rilevato come (…) i ricorrenti tendano a segmentare quello che è un complesso negoziale ed a darne una lettura sostanzialmente frammentata”; esaminando invece la vicenda in tutti i suoi elementi, ci si avvede che sussiste “l’atto idoneo al trasferimento della proprietà delle azioni“.
Con il secondo motivo di ricorso, è stata lamentata una ulteriore violazione di norme di ordine pubblico: questa volta, quelle in materia di prescrizione. Sennonché, la Cassazione, richiamando un suo precedente (Cass., Sez. III Civ., 18 gennaio 2011, n. 1084, disponibile qui), ha osservato che “le norme sulla prescrizione (…) non possono essere considerate di ordine pubblico, e tale rilievo assorbe ogni ulteriore valutazione sulle censure fatte valere nel motivo“. Questo motivo di ricorso è quindi stato respinto, senza necessità di indagare l’applicazione che delle norme sulla prescrizione era stata fatta dal Tribunale Arbitrale.
Il terzo motivo lamentava una nullità del lodo ex art. 829, co. 1, n. 4, cod. proc. civ. (“L’impugnazione per nullità è ammessa, nonostante qualunque preventiva rinuncia, nei casi seguenti: (…) 4) se il lodo ha pronunciato fuori dei limiti della convenzione d’arbitrato (…)“). L’errore del Tribunale Arbitrale sarebbe consistito, in particolare, nell’aver affermato la “validità, efficacia e legittimità” di negozi intervenuti tra Bernardo Caprotti e terzi (nello specifico, Unione Fiduciaria S.p.A.). La Corte ha respinto pure questo motivo di ricorso, notando come, ancora una volta, il vizio denunciato dai ricorrenti derivasse da una forzata frammentazione di una vicenda in realtà unitaria: “non sfugge che la valutazione del profilo in oggetto intercetta quanto già rilevato nel primo motivo, per cui la reiezione di questo finisce con l’assorbire la censura di cui si tratta“.
Più complesso era il quarto e ultimo motivo, che si articolava in due distinte censure: da un lato, nel corso del procedimento arbitrale sarebbe avvenuta una violazione del principio contraddittorio, poiché sarebbe stato consentito a Bernardo Caprotti di modificare le sue domande; dall’altro lato, poi, il Tribunale Arbitrale avrebbe accolto una domanda non formulata dalle parti.
Anche questo motivo di ricorso è stato respinto. Quanto alla violazione del contraddittorio, la Corte ha richiamato un suo precedente (Cass., Sez. I Civ., 27 dicembre 2013, n. 28660, disponibile qui), che ha espresso il principio “secondo cui nel procedimento arbitrale l’omessa osservanza del principio del contraddittorio (…) non è un vizio formale, ma di attività; ne consegue che, ai fini della declaratoria di nullità, è necessario accertare la concreta menomazione del diritto di difesa, tenendo conto delle modalità di confronto tra le parti (…) e delle possibilità, per le stesse, di esercitare, nel rispetto della regola “audiatur et altera pars”, su un piano di uguaglianza le facoltà processuali loro attribuite“. Fatta questa premessa, la Corte ha poi osservato che i figli di Caprotti avevano svolto le loro difese, in relazione alla pretesa domanda nuova formulata dal padre, sin dalla loro prima memoria nel procedimento arbitrale, circostanza che “induce a ritenere che la questione (…) appartenesse già al giudizio” e “vale a privare di incisività la difesa degli odierni ricorrenti“.
L’ulteriore argomento posto a fondamento del quarto motivo (pronuncia su domanda non formulata dalle parti), infine, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte, poiché “dalla sentenza impugnata non risulta che Violetta e Giuseppe Caprotti avessero fatto valere tale vizio [nel giudizio avanti la Corte di Appello, n.d.s.], (…) di talchè sarebbe stato onere della parte indicare come e dove avesse denunciato il profilo in oggetto nel giudizio di merito“.
Una ultima annotazione che vorrei fare riguarda le tempistiche di questo giudizio. Il lodo arbitrale è stato pronunciato, da un Tribunale Arbitrale composto da giuristi di chiara fama, in meno di un anno. In circa quattro anni dall’inizio della vicenda, è intervenuta la decisione definitiva della Cassazione. Pur nelle peculiarità del caso concreto, è forse la migliore dimostrazione dell’utilità del ricorso all’arbitrato nel nostro Paese.