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Clausola penale, risoluzione e arbitrato

Un tema molto interessante, sia per i suoi aspetti dogmatici che per quelli pratici, è quello dell’arbitrabilità delle controversie conseguenti alla risoluzione (o comunque allo scioglimento) di un contratto.  Avevo già affrontato questo argomento, pochi mesi fa, in relazione alle restituzioni conseguenti alla risoluzione contrattuale, commentando una sentenza del Tribunale di Milano che, a mio avviso, aveva mal applicato i principi che regolano la materia (qui il mio post di allora).  Una recente sentenza del Tribunale di Roma (n. 1695 del 27 gennaio 2020, disponibile qui) mi consente di tornare sul tema, esaminandolo da un punto di vista parzialmente diverso.

La vicenda decisa dal Tribunale di Roma concerneva un contratto di franchising. 

Il contratto prevedeva che al suo scioglimento, e per effetto dello stesso, sorgessero talune obbligazioni in carico al franchisee, da adempiersi entro un determinato termine.  La stipulazione era assistita da una clausola penale: per ogni giorno di ritardo, il franchisee avrebbe dovuto pagare una determinata somma al franchisor.

Lo stesso contratto di franchising pure conteneva una clausola compromissoria per “Qualsiasi controversia (…) tra le parti relativamente all’interpretazione, alla validità, all’esecuzione od alla risoluzione del Contratto“, che pure prevedeva “la competenza del giudice ordinario per l’adozione di provvedimenti cautelari e per l’emissione di ingiunzioni di pagamento o di consegna ai sensi degli artt. 633 e seguenti c.p.c., in relazione ai quali sarà competente in via esclusiva il foro di Roma“.

Il franchisor, lamentando l’inadempimento di alcuni franchisee alle loro obbligazioni conseguenti, ai sensi di contratto, allo scioglimento di quest’ultimo, ha chiesto e ottenuto taluni decreti ingiuntivi per le penali a suo dire dovute.

I franchisee hanno proposto opposizione a questi decreti ingiuntivi, chiedendo tra l’altro la loro revoca in forza della devoluzione alla cognizione arbitrale delle controversie tra le parti, in forza della clausola compromissoria di cui si è detto.

In due casi il Tribunale di Roma ha respinto l’eccezione di arbitrato, in ragione del fatto che la controversia riguardava vicende successive allo scioglimento del contratto (Trib. Roma, ord. 27 agosto 2016, disponibile qui; e Trib. Roma, ord. 17 maggio 2017, disponibile qui).  In un terzo caso, che è poi quello in cui è stata pronunciata la recente sentenza che mi ha dato l’occasione di condividere queste mie brevi osservazioni, il Tribunale di Roma ha invece accolto l’eccezione e dichiarato la competenza arbitrale.

Mi pare che l’ultima decisione sia quella corretta. 

La clausola compromissoria – è noto – ha una sua particolare e specifica regola interpretativa, quella fissata dall’art. 808-quater cod. proc. civ.: “Nel dubbio, la convenzione di arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce“.

In applicazione di questa specifica regola interpretativa, la Suprema Corte ancora recentemente ha ribadito che la clausola compromissoria “in mancanza di espressa volontà contraria, deve essere interpretata nel senso di ascrivere alla competenza arbitrale tutte le controversie che si riferiscono a pretese aventi la causa petendi nel contratto cui detta clausola è annessa” (Cass., Sez. I Civ., 8 febbraio 2019, n. 3795, disponibile qui).

Ora, le vicende esaminate dal Tribunale di Roma riguardavano tutte ipotesi di pretesi inadempimenti di obbligazioni contrattuali e di penali conseguentemente dovute in forza di precise clausole contrattuali.  Non può dunque dubitarsi che la causa petendi fosse il contratto e dunque neppure avrebbe potuto dubitarsi, sul punto, della competenza arbitrale.

Una ultima osservazione merita la clausola compromissoria là dove fa salva la competenza del Giudice statuale a pronunciare provvedimenti cautelari e monitori, stabilendo la competenza esclusiva del Tribunale di Roma.

Si tratta, nonostante l’apparenza semplice e lineare, di una stipulazione che a mio avviso non è di agevole interpretazione.  

Cominciamo dalla fine: la clausola stabilisce la competenza esclusiva del Tribunale di Roma.  In relazione a questo frammento della disposizione, nulla c’è da osservare.

Ma la clausola non si limita a fare questo: come detto, fa salva la competenza del Giudice statuale a pronunciare determinati provvedimenti (cautelari e monitori).  Provvedimenti in relazione ai quali la competenza del Giudice statuale già sussiste, senza bisogno di una specifica stipulazione, come lo stesso Tribunale di Roma nella sentenza in commento ha ricordato in relazione alla pronuncia del decreto ingiuntivo.

Eppure la legge obbliga l’interprete a compiere uno sforzo per attribuire alle disposizioni contrattuali un significato e un effetto, piuttosto che alcun significato e alcun effetto: è questo in sintesi il principio di conservazione codificato dall’art. 1367 cod. civ.

Si può allora interpretare la clausola in parola nel senso che il Giudice statuale sarebbe competente non solo per emettere un decreto ingiuntivo (competenza che già gli attribuisce la legge processuale) ma pure per conoscere dell’eventuale opposizione al decreto ingiuntivo da lui emesso (competenza, questa, che gli verrebbe attribuita dalla clausola)?  

Si tratta di un interrogativo interessante, che per quanto a mia conoscenza il Tribunale di Roma non si è posto, ma su cui magari potrebbe soffermarsi la Suprema Corte in sede di (eventuale) regolamento di competenza.  Nel qual caso, tornerò a parlarne su questo blog.

Roberto Oliva:
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