Roberto Oliva

Una condizione per l’accesso alle risorse del c.d. Recovery Fund è rappresentata dalla presentazione di un “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, che deve essere coerente con le raccomandazioni specifiche rivolte a ciascuno Stato membro dalla Commissione europea.

Il Governo italiano ha recentemente reso disponibile un documento preliminare, denominato “Linee guida per la definizione del piano nazionale di ripresa e resilienza” (disponibile qui).  Un documento snello, che consta di una quarantina di pagine, due delle quali dedicate alla giustizia. 

E proprio con riferimento alla giustizia particolarmente vaghe sono le indicazioni contenute in queste linee guida: si enuncia l’obiettivo di ridurre la durata dei processi, si annunciano riforme della giustizia civile, penale e tributaria, si indica il tema della necessità di interventi di natura strutturale sull’organizzazione dell’amministrazione della giustizia.  Null’altro. 

A seguito della pubblicazione di queste linee guida, l’Unione Nazionale delle Camere Civili, ossia l’associazione forense rappresentativa degli avvocati civilisti italiani, ha diffuso una proposta di piano straordinario per la giustizia civile (disponibile qui).  Una iniziativa meritoria, poiché avvia un dibattito su possibili misure concrete. 

Con riferimento al tema dell’arbitrato nel nostro Paese, sono due le proposte formulate dall’Unione Nazionale delle Camere Civili.

La prima proposta è quella di “rendere obbligatorio, in alcune materie e se del caso con limiti di valore, il ricorso all’arbitrato (eventualmente nella forma dell’arbitro unico) a tariffe calmierate, (…) prevedendo (al fine di scongiurare possibili violazioni dell’art. 102  Cost.) che il relativo lodo sia destinato ad acquisire efficacia esecutiva, ma non l’idoneità del giudicato (così come oggi accade per i procedimenti di cui all’art. 700 c.p.c.)“.

La seconda proposta è invece quella di “prevedere che gli arbitri, quanto meno in alcune materie, possano emettere provvedimenti cautelari e/o di urgenza“.

La finalità di entrambe queste proposte, quanto meno a un primo esame, è quella di impiegare l’arbitrato quale strumento deflattivo del contenzioso civile ordinario.

Non è qui in questione se tale finalità renda giustizia delle potenzialità dello strumento arbitrale.  Occorre però interrogarsi se le proposte siano funzionali a quella che pare la loro finalità.

Innanzi tutto, l’arbitrato obbligatorio.  Nel nostro ordinamento tale tipo di arbitrato non è ammesso (è risalente sul punto l’insegnamento della Corte costituzionale: sentenza n. 127 del 14 luglio 1977, disponibile qui; in tempi più recenti, Corte costituzionale, sentenza n. 221 dell’8 giugno 2005, disponibile qui).  La ragione è semplice: l’arbitrato è un meccanismo di risoluzione sulle controversie per sua natura fondato sul consenso.  E questo consenso non può essere sostituito da una disposizione di legge. 

La proposta in commento vorrebbe superare questo scoglio trasformando il lodo reso in sede di arbitrato obbligatorio in un lodo, per così dire, anticipatorio: un provvedimento idoneo a fondare l’esecuzione forzata, ma non a passare in giudicato. 

Non è ben chiaro come questo meccanismo possa concretamente operare, quel che però ben si comprende è che, se il lodo anticipa la sentenza del Giudice statuale e non si sostituisce ad essa, l’efficacia della misura non è facilmente prevedibile e potrebbe pure essere nulla (come sostanzialmente nulla è stata l’efficacia del c.d. arbitrato deflattivo previsto dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni in l. 10 novembre 2014, n. 162).

Ben altro respiro ha la seconda proposta formulata dall’Unione Nazionale delle Camere Civili: quella di – finalmente – attribuire poteri cautelari agli arbitri, dove già non li abbiano (in materia societaria: art 34 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5) o non abbiano trovato un meccanismo per esercitarli, se non nella forma, almeno nella sostanza (il riferimento corre alle previsioni di cui all’art. 26 del Regolamento arbitrale della Camera arbitrale di Milano entrato in vigore nel marzo 2019, ma di cui non si conoscono allo stato applicazioni pratiche).

Si tratta di una riforma da tempo e da più parti invocata, per uniformare il nostro diritto dell’arbitrato a quello di altri ordinamenti che si riconoscono nella stessa prospettiva di civiltà, e abbandonare così il ristretto club di quei sistemi che riservano il potere cautelare al Giudice statuale. 

Manca però una terza proposta, che dovrebbe essere la principale proposta.  Una proposta volta a incentivare l’impiego dello strumento arbitrale.

Sono principalmente due gli aspetti che limitano fortemente la diffusione dell’arbitrato in Italia. 

Un primo aspetto, acutamente analizzato in un recente studio (disponibile qui), è quello della mancanza di fiducia nello strumento arbitrale.  Si tratta di un tema di rilevante importanza, che per essere risolto richiede una seria riflessione da parte degli operatori del diritto e della classe forense in particolare. 

Il secondo aspetto riguarda invece i costi del procedimento arbitrale.  Il costo del Giudice statuale è quasi esclusivamente a carico della fiscalità generale; il costo del Tribunale arbitrale è a carico delle parti.  Ecco che allora su questi costi si potrebbe incidere.  Innanzi tutto, esentando dall’imposta di bollo tutti gli atti del procedimento arbitrale (ora invece tassati nella misura di Euro 16 ogni quattro cartelle).  In secondo luogo, esentando dall’imposta di registro il lodo (che ora è soggetto all’imposta nella stessa misura delle sentenze del Giudice statuale).  Infine, se si desidera impiegare l’arbitrato come strumento deflattivo del contenzioso avanti il Giudice statuale, a vantaggio della collettività, ossia se si considera l’arbitrato come esternalità positiva, è necessario incentivare una simile esternalità.  E farlo con un incentivo che sia economicamente apprezzabile, quale potrebbe ad esempio essere un credito d’imposta in favore delle parti, commisurato ai costi da queste sostenuti per il funzionamento del Tribunale arbitrale.  

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