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Molto è stato scritto, e molto sarà ancora scritto, sulla riforma della disciplina dell’arbitrato contenuta nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149.
L’innegabile merito di questa riforma è quello di avvicinare il nostro sistema a quello di altri ordinamenti, che si riconoscono nella nostra medesima prospettiva di civiltà.
In questo senso vanno sicuramente interpretate le modifiche che hanno (finalmente) permesso agli arbitri di emettere provvedimenti cautelari, e quelle relative alla disclosure e alla ricusazione degli arbitri.
Altre modifiche ci pongono poi tra gli ordinamenti più avanzati: basti pensare a quella concernente l’individuazione della legge applicabile, che consente alle parti e agli arbitri di fare riferimento a norme sostanziali che non siano state prodotte da alcun ordinamento statuale.
In questo contesto, di generale e grande soddisfazione, non possono però essere taciuti i limiti della riforma, che per di più derivano da formulazioni infelici delle nuove norme (a loro volta, conseguenza dell’urgenza con le quale sono state approvate, per di più con una anticipazione della loro entrata in vigore).
Innanzi tutto, per quanto riguarda la disclosure.
La legge ora prevede che essa debba essere fatta, a pena di nullità dell’accettazione (art. 813 cod. proc. civ.). La stessa legge precisa poi che, in caso di omessa o reticente dichiarazione, si può chiedere che venga pronunciata la decadenza dell’arbitro.
Si vengono così a sommare, almeno in potenza, tre rimedi. A fronte di una dichiarazione omessa, si potrebbe ritenere che il lodo sia impugnabile (perché, in conseguenza della nullità dell’accettazione, sussisterebbe un vizio nella costituzione del Tribunale arbitrale, rilevante ai sensi dell’art. 829, co. 1, n. 2 cod. proc. civ.). L’arbitro potrebbe essere inoltre ricusato ai sensi dell’art. 815 cod. proc. civ. Infine, la parte interessata potrebbe domandare di pronunciarne la decadenza ai sensi dell’art. 813-bis cod. proc. civ.
La dottrina che si è sinora occupata del tema ha cercato di restringere il novero dei rimedi ammissibili. Per lo più, è giunta alla conclusione che la nullità dell’accettazione non avrebbe conseguenze (quanto meno, non necessariamente) sulla validità del lodo, e che la parte interessata abbia l’onere di promuovere la ricusazione o domandare la decadenza dell’arbitro (apparentemente, a sua libera scelta, anche alla luce della sua strategia difensiva, poste le significative differenze tra ricusazione e decadenza).
Si tratta di una soluzione che non appare soddisfacente, e per una ragione molto semplice: non è idonea a risolvere il problema che la riforma ha inteso affrontare.
Si pensi ai fatti di BEG v. Italy: un arbitro aveva omesso di dare atto di una serie di circostanze idonee a compromettere seriamente la sua indipendenza e imparzialità. Sennonché, queste circostanze sono state apprese dalla parte interessata solo in un momento successivo alla sottoscrizione del lodo. Secondo le vecchie disposizioni, ciò non aveva conseguenze sulla stabilità del lodo, perché l’arbitro può essere ricusato solo durante il procedimento (aspetto, questo, sul quale la riforma non sembra aver inciso). Questa conclusione però è stata ritenuta una violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Appare dunque preferire interpretare le nuove norme in un senso che consenta di escludere – anziché reiterare – la violazione della stessa Convenzione in fattispecie simili a quella che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già esaminato. E per raggiungere questo obiettivo occorre rimuovere gli sbarramenti all’impugnazione del lodo, valorizzando quindi la scelta del legislatore di disporre espressamente la nullità dell’accettazione compiuta dall’arbitro in assenza di disclosure.
Un altro aspetto problematico riguarda la disciplina dei provvedimenti cautelari emessi dagli arbitri.
Due sono in particolare i dubbi sinora emersi: quali siano i provvedimenti che gli arbitri possono concedere, e se sia derogabile la competenza esclusiva arbitrale successiva alla costituzione del Tribunale arbitrale.
Per quanto riguarda il primo aspetto (provvedimenti che possono essere concessi), occorre considerare il dichiarato intento della riforma, ossia quello di colmare “una lacuna che differenziava il nostro sistema da quello degli ordinamenti a noi geograficamente e culturalmente più vicini” (così la relazione illustrativa). Per conseguire questo intento, si dovrà ritenere concesso agli arbitri di pronunciare tutti i provvedimenti cautelari, che opportunamente il legislatore non ha identificato, conosciuti dalla prassi arbitrale “degli ordinamenti a noi geograficamente e culturalmente più vicini”. In questa prospettiva, una buona esemplificazione dei provvedimenti cautelari concedibili è quella contenuta nella The Secretariat’s Guide to ICC Arbitration, anche alla luce del fatto che l’ordinamento francese, all’interno del quale si colloca l’arbitrato ICC, come il nostro non definisce il contenuto dei provvedimenti cautelari che possono essere emessi dagli arbitri (v.si art. 1468 cod. proc. civ. francese). D’altronde, anche ove si voglia cercare un supporto normativo (ossia, ove si ritenga che l’espressione “misure cautelari” di cui all’art. 818 cod. proc. civ. faccia riferimento non alle misure cautelari conosciute dalla prassi dell’arbitrato internazionale, bensì a quelle previste e disciplinate dal codice di procedura civile), esso può essere individuato nell’art. 700 cod. proc. civ. e all’interpretazione che allo stesso è data da consolidata giurisprudenza.
In questo contesto, una specifica attenzione merita un particolare provvedimento cautelare, che negli ordinamenti di common law viene usualmente definito in termini di security for costs, mentre negli ordinamenti di civil law viene spesso indicato con l’espressione latina cautio pro expensis.
Questa misura era conosciuta anche dal nostro ordinamento, finché non è stata dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte cost., sent. 67/1960). Sennonché, non pare che la motivazione della pronuncia della Corte costituzionale (la cautio pro expensis rappresenterebbe un disincentivo ad esercitare in giudizio i propri diritti ai sensi dell’art. 24 Cost., e dunque un ostacolo all’attuazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.) si attagli al procedimento arbitrale. È infatti pacifico (e accettato) che i costi del procedimento arbitrale rappresentino precisamente un disincentivo alla sua proposizione, ma ciò avviene in un contesto in cui le parti hanno liberamente scelto di rivolgersi agli arbitri (e sopportarne i costi) anziché al Giudice dello Stato (con oneri per la massima parte a carico della fiscalità generale). L’aspetto da considerare con maggior attenzione è quindi, semmai, quello delle conseguenze del mancato versamento della security for costs / cautio pro expensis, che difficilmente potranno consistere nell’estinzione (anche solo parziale) del rapporto processuale o nella sospensione del procedimento, quanto meno in mancanza di disposizioni al riguardo nella convenzione di arbitrato o nell’eventuale regolamento precostituito ivi richiamato.
Altra questione da indagare è quella della derogabilità della competenza cautelare esclusiva degli arbitri. Alcune voci in dottrina, invero, hanno osservato che, poiché l’eccezione di arbitrato è eccezione in senso proprio e stretto, e dunque la competenza arbitrale può essere derogata con un comportamento processuale, non si vede per quale motivo una deroga non sarebbe possibile per via convenzionale, attribuendo alcuni poteri cautelari agli arbitri e altri al Giudice dello Stato.
L’argomento non pare condivisibile. Infatti, l’attribuzione di taluni poteri cautelari agli arbitri e di altri al Giudice statuale – oltre a contraddire apertamente la lettera del novellato art. 818 cod. proc. civ. (“La competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva”) – apre la via a pericolose sovrapposizioni nella valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora, che sono precisamente ciò che il legislatore ha inteso evitare.
In definitiva, la complessiva valutazione positiva della riforma della disciplina arbitrato deve essere temperata alla luce delle incertezze derivanti da alcuni dubbi interpretativi. Un loro scioglimento da parte del legislatore pare tanto opportuno quanto purtroppo improbabile, sì che si dovrà attendere la formazione di univoci orientamenti giurisprudenziali.