Inadempimento alla convenzione di arbitrato

Roberto Oliva

Gli operatori dell’arbitrato commerciale, sia domestico che internazionale, devono talvolta affrontare i problemi derivanti dal comportamento di una parte che, recalcitrante a vedere la controversia decisa dagli arbitri come pure pattuito, assume comportamenti – che possono consistere in azioni positive, ovvero nell’omissione di azioni dovute – il cui apparente intento è quello di impedire, ovvero di ostacolare e rallentare, lo svolgimento del procedimento arbitrale.

Di ciò sono consapevoli anche le principali istituzioni arbitrali, che in effetti da tempo includono nei loro regolamenti o recentemente hanno ivi introdotto il monito rappresentato dall’espressa disposizione secondo la quale le parti debbono comportarsi secondo buona fede e correttezza.

Il tema non ha però trovato, quanto meno in Italia, particolare attenzione – salvo che da parte di una dottrina tanto isolata quanto autorevole.  Appare per questo motivo opportuno affrontarlo, in una proposta – preliminare e parziale, anche in considerazione del limitato spazio in cui al momento sembra opportuno contenerla – di ricostruzione sistematica.

La prima questione da affrontare attiene la natura della convenzione di arbitrato, ossia dell’accordo, intervenuto tra due o più parti, ai sensi del quale le loro controversie, attuali o future, sono rimesse alla decisione di un privato, chiamato a esercitare il potere giurisdizionale in vece dei Giudici dello Stato.

Secondo alcuni Autori, tale convenzione sarebbe un negozio non contrattuale con effetti processuali.  Altri le riconoscono invece natura contrattuale, seppur in alcuni casi ritenendo che la questione abbia natura meramente nominalistica.

L’approccio che pare preferibile è quello ad avviso del quale la convenzione di arbitrato è un contratto di diritto privato avente per oggetto la scelta di un modo di definire una controversia, così producendo effetti processuali.

Questo approccio infatti è nel contempo pienamente compatibile con la tradizione giuridica nazionale e con quella internazionale.  Esso inoltre tiene conto di taluni significativi indici normativi che risulterebbero altrimenti pretermessi.

La definizione in termini contrattuali della convenzione di arbitrato conduce poi ad applicare direttamente le disposizioni contenute nel Titolo II del Libro IV del Codice civile – e in particolare, per quanto qui interessa, quella di cui all’ art. 1375 cod. civ. che, come ci si appresta a vedere, assume (o può assumere) una certa rilevanza.

La qualificazione della convenzione di arbitrato è invece ininfluente ai fini dell’applicazione degli artt. 1218 ss. cod. civ.: sia che essa abbia natura contrattuale, sia che essa abbia natura di negozio con effetti processuali, è indiscusso che fa sorgere delle obbligazioni, e dunque una responsabilità per il caso di mancato adempimento.

Se la convenzione di arbitrato è quel contratto con il quale le parti si impegnano a rimettere le loro controversie alla decisione degli arbitri, è chiaro che essa fa sorgere un’obbligazione negativa: quella di non adire, per le controversie contemplate dalla convenzione, il Giudice dello Stato, o comunque un organo diverso rispetto a quello previsto nella convenzione.  Nel contempo, fa pure sorgere un’obbligazione positiva: quella di sottomettere agli arbitri le suddette controversie.

Concordano sul punto sia la dottrina domestica che quella straniera.

Non pare invece condivisibile l’ulteriore affermazione, secondo la quale questa sarebbe l’unica obbligazione derivante dalla convenzione di arbitrato.

Ben al contrario, può ricavarsi una serie di ulteriori obbligazioni, di carattere positivo, ossia che impongono ai contraenti dei precisi obblighi di fare.

Una prima ricognizione di questi obblighi comprende l’obbligo di nominare tempestivamente l’arbitro o gli arbitri e l’obbligo di corrispondere (agli arbitri o all’istituzione arbitrale, a seconda dei casi) gli anticipi richiesti.

A questi precisi obblighi di fare si accompagnano altrettanto precisi obblighi di non fare, ulteriori rispetto all’obbligo di non adire un soggetto diverso dagli arbitri, e in particolare l’obbligo di non assumere condotte volte a impedire o rallentare la costituzione e il funzionamento del Tribunale arbitrale e l’obbligo di astenersi dall’impugnare il lodo per motivi diversi da quelli ammessi dalla legge.

Tutti questi obblighi rappresentano esplicitazione del principio, di cui all’art. 1375 cod. civ., secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.

Più nel dettaglio.

Le parti hanno l’obbligo – e non il mero onere, come pure è stato argomentato – di nominare tempestivamente gli arbitri, poiché la mancanza di una nomina tempestiva non può essere considerata compatibile con il canone di buona fede nell’esecuzione del contratto.  Tale omissione, infatti, tradisce l’intento di rallentare la costituzione del Tribunale arbitrale, e quindi l’assunzione della decisione sul merito della controversia da parte degli arbitri; decisione che rappresenta l’obiettivo divisato dalle parti che hanno concluso la convenzione di arbitrato.

Le parti hanno poi l’obbligo di corrispondere gli anticipi richiesti dagli arbitri o dall’istituzione arbitrale poiché, ancora una volta, il mancato pagamento non è compatibile con la realizzazione in buona fede dell’obiettivo contrattuale di ottenere una decisione sul merito da parte del Tribunale arbitrale (vuoi perché può condurre allo scioglimento della clausola ai sensi dell’art. 816-septies cod. proc. civ., vuoi perché può portare alla sospensione o all’estinzione del procedimento).

Le parti hanno inoltre l’obbligo di non assumere tutte le condotte – diverse da quelle appena viste – volte a impedire o rallentare la costituzione del Tribunale arbitrale o il suo funzionamento.  Non potranno, quindi, ad esempio nominare un arbitro che si veda costretto a non accettare l’incarico poiché versa in una conosciuta situazione di conflitto di interessi.  Rientrano in questa categoria anche le tecniche c.d. di filibustering, sebbene con riferimento alle stesse paia opportuna una particolare cautela, in considerazione del confine tutt’altro che netto tra esercizio del diritto di difesa e abuso dello stesso.

Le parti, infine, dovranno astenersi dal proporre impugnazioni del lodo diverse da quelle ammesse dalla legge.  Ciò in particolare significa che non dovranno tentare di ‘travestire’ nelle forme di uno dei motivi di nullità del lodo ex art. 829 cod. proc. civ. critiche agli accertamenti di fatto compiuti dagli arbitri, ovvero alle loro statuizioni in diritto (salvo il caso in cui il lodo sia impugnabile anche per violazione delle norme di diritto applicabili al merito della controversia).  Ciò perché, avendo scelto un metodo di soluzione delle controversie che non prevede un doppio grado di giudizio di merito, un diverso comportamento ancora una volta non potrebbe essere ritenuto corrispondente al canone di buona fede nell’esecuzione del contratto.

A fronte dell’inadempimento alla convenzione di arbitrato (in tutte le varie forme, appena viste, che esso può assumere), l’ordinamento appresta due tipi di rimedi: di carattere processuale e di carattere sostanziale.

I rimedi processuali sono quelli volti a rimuovere gli effetti più gravi dell’inadempimento.

Così, a fronte dell’inadempimento consistente nel promuovere la lite avanti i Giudici dello Stato, il rimedio processuale è rappresentato dall’eccezione di compromesso, che paralizza tale azione.  Oppure, a seguito dell’inadempimento consistente nella mancata nomina dell’arbitro, il rimedio consiste nel rivolgersi alla appointing authority a tal fine prevista, dalla convenzione o in mancanza dalla legge.  O ancora, se invece l’inadempimento consiste nel nominare un arbitro in chiaro conflitto di interessi, il rimedio consiste nella sua ricusazione (nel caso in cui l’arbitro concorra a questo inadempimento accettando l’incarico) ovvero, nei casi più gravi, in cui ad esempio viene in gioco il contenuto della sua dichiarazione di indipendenza e imparzialità ai sensi dell’art. 813 cod. proc. civ., provocandone la decadenza ex art. 813-bis cod. proc. civ.

Tutti questi rimedi possono però risultare inidonei a raggiungere l’obiettivo di porre il contraente fedele nella situazione in cui sarebbe stato in assenza di inadempimento.  Ad esempio, non considerano i costi necessari per la loro attivazione – se non, se del caso, sub specie di spese di lite, che però come noto ben possono essere liquidate in un importo anche notevolmente inferiore rispetto alle spese effettivamente sostenute.

Vi sono poi inadempimenti in relazione ai quali non è predisposto alcun rimedio: così, se una parte non ha pagato gli acconti richiesti, l’altra parte non potrà far altro che pagarli in sua vece, oppure subire lo scioglimento della convenzione di arbitrato ai sensi dell’art. 816-septies cod. proc. civ. oppure, a seconda dei casi, la sospensione o l’estinzione del procedimento.

Ecco che allora in tutti questi casi può soccorrere il rimedio sostanziale: il risarcimento del danno.  Tutte le perdite (i costi) e gli eventuali mancati guadagni derivanti dall’inadempimento potranno essere risarciti, purché ne siano, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., conseguenza immediata e diretta.

Escludendo le numerose vicende in cui sono stati attivati esclusivamente rimedi di carattere processuale, la casistica italiana sul tema è piuttosto esigua.  Tra i precedenti editi, possono essere richiamati una sentenza del Tribunale di Verona del novembre 2012, una sentenza della Corte d’appello di Milano (disponibile qui) e una sentenza della Corte d’appello di Brescia (disponibile qui).

È interessante notare come, nel primo caso (Tribunale di Verona), la parte che aveva agito avanti il Giudice ordinario in spregio dell’obbligazione assunta con la convenzione di arbitrato è stata condannata a corrispondere al contraente fedele una somma di danaro (pari a circa metà delle spese di lite liquidate) ai sensi dell’art. 96, co. 3, cod. proc. civ.

Il riferimento normativo appena indicato (e dunque la considerazione della c.d. “temerarietà attenuata”) discende dall’espressa domanda formulata in giudizio dal contraente fedele alla convenzione di arbitrato.  Il concreto accertamento compiuto dal Giudice è stato però nel senso della piena temerarietà.  Invero, il Tribunale ha considerato che “l’attrice ha insistito nel sostenere la proponibilità della domanda, quantunque avesse possibilità di aderire all’eccezione di controparte, sulla scorta di argomenti in parte pretestuosi ed in parte contraddetti da un orientamento giurisprudenziale consolidato, senza farsi carico di addurre le ragioni per cui quest’ultimo dovesse essere disatteso”, per concludere nel senso di “ritenere la sua difesa connotata da malafede”. 

Estremamente chiara – e meritevole di attenzione – è la motivazione addotta dalla Corte d’appello di Milano per attivare, ancora una volta, il rimedio di cui all’art. 96, co. 3, cod. proc. civ.

Vale la pena di riportarla per esteso: “Dalla semplice lettura della citazione in impugnazione del lodo emerge inequivocabilmente la assoluta consapevolezza degli attori impugnanti (tenuto anche conto dell’indubbio valore professionale della difesa) che le circostanze poste a fondamento di tutti gli asseriti motivi di nullità, con riguardo ai denunciati vizi di assenza di motivazione sommaria ovvero di contraddittorietà della stessa, concretizzavano, in realtà, delle contestazioni in ordine all’erronea valutazione fattuale e alla violazione di regole di diritto, addebitate al collegio arbitrale e, come tali, del tutto inammissibili, mentre quelle poste a fondamento dei denunciati vizi di violazione di norme di ordine pubblico e di omessa pronuncia erano palesemente insussistenti.  Nella fattispecie in esame si è, in definitiva, concretizzato un caso, in cui le parti hanno, dapprima, con la conclusione di una convenzione di arbitrato, preferito sottrarre alla «giustizia pubblica» la decisione delle controversie che avrebbero potuto sorgere tra loro, attribuendole alla «giustizia privata», ritenuta evidentemente più rapida o più affidabile anche se, all’evidenza, molto più costosa; quando però, essendo insorta una controversia reale, la «giustizia privata» ha assunto la decisione, la parte soccombente ha provato a richiedere la decisione nel merito della stessa alla «giustizia pubblica», travestendo in motivi di nullità del lodo quelle che sono, con ogni evidenza, contestazioni di merito e così aggravando ed intralciando, inutilmente e inammissibilmente, l’ordinario lavoro della «giustizia pubblica»”.

Sulla base di questa motivazione, la Corte d’appello di Milano ha condannato le parti soccombenti a corrispondere, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., somme equiparabili (e in un caso identiche) a quelle oggetto della condanna alle spese.

Ancora più interessante è la vicenda decisa dalla Corte d’appello di Brescia.  In quel caso, la parte inadempiente alla convenzione di arbitrato aveva omesso di corrispondere gli anticipi richiesti dagli arbitri, portando così allo scioglimento del vincolo arbitrale ai sensi dell’art. 816-septies cod. proc. civ.  Il contraente fedele, vistosi costretto ad adire il Giudice statuale, aveva a quest’ultimo richiesto di condannare l’altra parte alla rifusione delle spese, ivi incluse quelle sostenute per l’inutilmente avviato procedimento arbitrale.  La Corte d’appello ha respinto la richiesta, ma l’ha fatto ritenendo che quelle spese non fossero spese di lite ai sensi dell’art. 91 cod. proc. civ. (e in quanto tali passibili di essere liquidate come richiesto), bensì una voce di danno, che avrebbe dovuto essere fatta oggetto di una specifica richiesta risarcitoria, la quale era però mancata.

In definitiva, alla luce di questi pur rari precedenti, si può ritenere che i Giudici italiani siano pronti a sanzionare la parte che si sia resa inadempiente alla convenzione di arbitrato, e anche a sanzionare comportamenti diversi e ulteriori rispetto alla mera proposizione della domanda in una sede non corretta (avanti il Giudice dello Stato anziché davanti agli arbitri).  Emerge anche una certa preferenza per lo strumento dell’art. 96 cod. proc. civ., e in particolare per il suo terzo comma, che consente una liquidazione equitativa anche a prescindere dalla dimostrazione della sussistenza e dell’entità del danno.

Qualche interessante spunto può a questo punto essere tratto dall’esperienza straniera.

Numerosi precedenti resi in Inghilterra e Galles affrontano il tema delle conseguenze risarcitorie dell’inadempimento ad accordi di scelta di foro in generale, e di convenzioni di arbitrato in particolare.  Estremamente noto è poi un precedente (West Tankers Inc v. Allianz SPA & Generali Assicurazione Generali SPA [2012] EWCA Civ 27) che ha riguardato una complessa vicenda in cui tra l’altro era dibattuta la competenza a emettere una pronuncia di condanna risarcitoria (questione, questa, risolta nel senso che tale competenza compete anche al Tribunale arbitrale che sia stato finalmente adito).

In sintesi, si può ritenere che il diritto inglese conosce la responsabilità risarcitoria gravante sulla parte che si sia resa inadempiente a una convenzione di arbitrato e il risarcimento del danno deve essere tale da mettere il contraente fedele nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato in assenza di inadempimento (sia pure con il temperamento dato dalla ragionevolezza dei costi sostenuti).

È poi presente un orientamento nella giurisprudenza del Tribunale federale svizzero secondo il quale è previsto dal diritto svizzero – o comunque non è incompatibile con l’ordine pubblico svizzero – che la parte che si sia resa inadempiente rispetto a una convenzione di arbitrato sia responsabile sul piano risarcitorio nei confronti del contraente fedele e la competenza a conoscere di questa responsabilità risarcitoria è del Tribunale arbitrale.

Tirando in conclusione le somme della proposta classificatoria che si è formulata, anche alla luce delle esperienze giurisprudenziali nazionali e straniere, pare potersi affermare che la convenzione di arbitrato è un contratto, con la conseguenza che, da un lato, essa deve essere eseguita secondo buona fede, e dall’altro lato, la parte che si sia resa inadempiente a essa (a quanto esplicitamente pattuito, così come all’obbligo di buona fede nell’esecuzione), è tenuta a risarcire i danni sofferti dal contraente fedele.  Inoltre, sebbene i Giudici italiani abbiano sinora prevalentemente conosciuto del tema con riferimento ai suoi risvolti processuali, esso non è limitato a tali risvolti e in alcune occasioni il rimedio processuale si presenta come inadeguato, o comunque insufficiente.

Si tratta poi, come osservato dall’isolata seppur autorevole dottrina richiamata più sopra, “di identificare il danno, che potrà consistere nelle spese di difesa sopportate per seguire il giudizio ordinario, non coperte dalla condanna della parte inadempiente alle spese giudiziali (…)” così come in tutti gli altri pregiudizi che costituiscano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento.

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